Conferenza sulla migrazione umana – Jean-Pierre Piessou – Docente di antropologia Africana

Una conferenza organizzata in memoria della giornata mondiale dei rifugiati. L’evento organizzato dall’African Docs in collaborazione con il Dipartimento Culture e Civiltà dell’Università degli Studi di Verona in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, 2016. La conferenza era anche per concludere il progetto di ricerca dell’associazione: We REFUGEES – Verona 2016. Trascrizione dalla CONFERENZA da Elena Bombieri. Jean-Pierre Piessou – Docente di antropologia Africana.

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La giornata del rifugiato, la giornata di oggi è stata creata e voluta nel ’51. Non è stata pensata come una giornata per celebrare qualcuno o un evento speciale, ma per ricordare, perché senza la memoria la storia non ha nessun senso. E nel ’51, dei 54-55 paesi africani, forse solo due erano indipendenti, la Liberia e l’Etiopia, tutti gli altri erano colonizzati. Quindi tutti questi paesi (colonizzati) non hanno potuto partecipare alla giornata organizzata dall’ONU per dire la loro, per raccontare la loro condizione. Questo succederà solo anni, anzi decenni dopo.

Dal ’51 al 2016 sono passati molti anni. Solo a partire dal’60 alcuni paesi hanno iniziato la strada per l’indipendenza, alcuni anche con pesanti spargimenti di sangue, come l’Algeria. Ora, negli ultimi 4 o 5 anni ci troviamo in una situazione non dico emergenziale ma drammatica. Drammatica. Perché noi africani – poi toccherà anche ai siriani, pachistani, afghani- noi continuiamo a seppellire i nostri morti. Anche tra i giovani, tantissimi morti. Tantissimi morti senza nome. Per il mio intervento di questo pomeriggio vorrei dare questo taglio, vorrei ripartire da qui, per pensare ad un progetto più organico, più strutturato. Ma per creare un progetto strutturato bisogna dare una lettura storica alla situazione.

Per capire cos’è l’asilo, la condizione del rifugiato, la richiesta d’asilo. Moltissimi personaggi storici hanno chiesto la protezione dell’asilo, Victor Hugo ad esempio, è scappato e ha richiesto l’asilo. Ancora più recente il generale De Gaulle ha richiesto l’asilo a Londra, nel 1940, durante la seconda guerra mondiale. Quindi non è una novità. Quando i grandi chiedono asilo, questo non crea clamore. Ma quando lo fanno i piccoli, che cercano un posto dove tutelarsi, dove recuperare la propria energia, dove rigenerarsi allora questo diventa un problema.

Ed è quello che stiamo vivendo in questi giorni. E dal mio punto di vista, la lettura che diamo oggi è insufficiente per capire perché questo sta avvenendo. È una lettura “tagliata”, “suddivisa”, parziale: umanitario, sussidiario, rifugiato, rifugiato economico. Cosa vuol dire rifugiato economico?

Per esempio un nigeriano che ha lasciato la sua casa 8 anni fa, per trasferirsi in Libia, lavorare e realizzare lì la sua vita, si trova di fronte alla crisi libica, deve scappare e cercare un altro posto dove andare, indietro non può più tornare, a sinistra in Tunisia non può andare, a destra in Egitto non può andare, e allora chiede aiuto. Eccolo il suo grido. E quindi il titolo di questo intervento di oggi è il respiro del migrante. RUAH, che in ebraico significa respiro di vita, il soffio di vita, quel soffio che Dio ha dato ad Adamo perché lui iniziasse a respirare. Quando la Terra ha iniziato a respirare. E questo l’immigrato ce l’ha. Però prima parte dal grido. Il grido lo sentiamo forte, ma a volte queste grida si spengono. Però dalle grida bisogna recuperare il respiro. E la vita. Oggi qui sono in molti, fuori sono in molti, ce ne sono molti anche fuori dai centri d’accoglienza, o che vivono nelle foreste intorno alle città. Spesso perché la commissione ha rifiutato la loro richiesta d’asilo, sono stati espulsi dai centri d’accoglienza e si ritrovano a vivere dove capita, in città, qualcuno anche vicino al cimitero di Verona.

Sul senso del respiro del migrante ho recuperato alcuni elementi chiave: l’asilo, la povertà, il concetto di asilo in esilio, quindi il senso di allontanamento, la guerra, la strada che va dai rumori della guerra ai suoni della pace; l’esodo, la fuga, che è presente nella Bibbia, che ha riguardato altre popolazioni come quelle della ex – Jugoslavia, del Ruanda ecc. Per recuperare il respiro del migrante, per fare in modo che recuperi la sua vita, è necessario avvicinarsi. Quindi il primo invito che faccio è quello di avvicinarsi di più. Di parlare di più.

Grazie Peter per il documentario, questo sarà sicuramente arricchito dalle storie dei richiedenti asilo.

Il respiro del migrante parte senza valigia. Ricordiamo che durante il suo attraversamento viene spogliato di tutto: della valigia, del telefonino, di tutto quello che ha. E quindi la sua valigia è vuota: ecco il significato della valigia aperta ma vuota. Ma nel loro respiro c’è anche qualcosa che si portano dentro, che è inciso in loro – e qui parlo degli immigrati africani – che portano con sé le loro tradizioni, inserite epidermicamente in loro. Quindi non partono vuoti del tutto, ma portando qualcosa appartenente al loro paese d’origine. A volte partono anche con il passaporto, che a volte gettano via, per non sentirsi continuamente interrogati. Sentirsi ripetere da dove vieni? Dalla Nigeria, dal Gambia, dal Niger, ecc.

Pensiamo ad esempio a quali sono stati gli oggetti considerati più preziosi, io qui ne ho inseriti due, e forse vi può sembrare strano. Ma la bicicletta e la radio sono due oggetti di felicità. Presento questi oggetti perché non voglio sprecare la giornata di oggi a parlare di discorsi troppo grandi. A questo punto non si può più parlare solo di accoglienza per quanto riguarda il vitto e l’alloggio ma bisognerebbe parlare di integrazione, di una integrazione che definirei operosa.

Per consentire al migrante che è alla ricerca del suo respiro di sapere da dove viene, dove si trova e cosa lo sta aspettando, cosa deve fare. E per fare questo ha bisogno in qualche modo di essere riconnesso al proprio mondo di provenienza, non per ricacciarlo indietro, ma per ricordargli il suo luogo di provenienza. E questo ricordo passa anche attraverso alcuni oggetti, facenti parte di quel luogo. Per esempio in un progetto di integrazione, è importante recuperare degli oggetti. Ad esempio sottolineando il concetto che si possono riparare le biciclette, non che si buttano via. Che si possono recuperare, riparare, rimettere in sesto, e regalare, valorizzando anche il concetto di dono.

E in una giornata come questa è anche importante ricordare, senza rimpianti e senza troppa nostalgia, la propria appartenenza. È importante non dimenticare il proprio paese d’origine, non rinnegarlo. Certo in quei paesi ci può essere la guerra o una situazione svantaggiata, ma è importante dare anche una lettura antropologica, ma secondo l’ottica dell’antropologia africana. L’antropologia africana non prevede una separazione tra il soggetto e il mondo in cui vive, ma è un’antropologia olistica e cosmica, recupera interamente tutto il soggetto. Non ci sono separazioni tra l’anima, il corpo, l’intelletto, la mente, e contempla il soggetto con il suo mondo, le sue vicissitudini, i suoi oggetti, la sua memoria.

Ecco perché io nel mio intervento di oggi parlo anche di questo, che apparentemente sembrerebbe superfluo, ma è qualcosa di importante per un richiedente asilo. […] è importante non rinnegare l’Africa, perché chi rinnega l’Africa tendenzialmente rinnega anche l’Europa e l’Italia che lo accolgono. E recuperare l’idea di Africa significa recuperare gli aspetti propri dell’Africa, come i rumori del mondo da cui si proviene, i saluti, i gesti che contano nella cultura africana. I gesti di saluto, di amicizia, di relazione, sono gesti che vanno recuperati in questa giornata del rifugiato, una giornata carica di significato.

In questo grande continente fino a qualche anno fa c’erano solo 4 poli economici attorno ai quali gli africani si spostavano per cercare lavoro: Sudafrica, Costa d’Avorio, Gabon e Libia. Quindi ad esempio migrare dalla Nigeria o dal Ghana al Gabon è come migrare a Parigi, perché si tratta di luoghi di lavoro importanti. Quando questi poli economici sono stati chiusi per diversi motivi, la Costa d’avorio per la guerra, il Sudafrica per motivi razziali, ricordate dopo Mandela, ecc. E proprio dopo che Mandela è mancato dallo scenario politico, si è creato un vuoto, sia per quanto riguarda il polo economico sia come riferimento morale. In quel momento ne è rimasto uno solo, ovvero Gheddafi. Gheddafi girava in tutti i paesi africani ad incontrare i ragazzi come loro, per parlare con loro e diventare leader del movimento africano.

Lo faceva offrendo soldi, aprendo qualche scuola coranica, comprando hotel, incontrando ragazzi universitari e dicendo loro “ragazzi se avete bisogno di lavoro venite in Libia”. Girava l’Africa e aveva creato perfino una compagnia aerea per far concorrenza a AirFrance. E questo ha fatto sì che molto africani cominciassero a guardare alla Libia, escludendo altri poli economici. Si muovevano su tre rotte: la prima passava dal Mali all’Algeria fino alla Libia, la seconda dal Benin, Burkina Faso, Niger e Libia e la terza dalla Somalia, al Kenya verso il Sudan e fino alla Libia.

Quindi la Libia era diventato un paese che attirava le persone, che piaceva, in ci c’era lavoro per tutto, sia per alfabetizzati che analfabeti, c’erano le scuole coraniche, tutti avevano qualcosa da fare. Quindi tutti si spostavano verso la Libia, non per venire in Europa, ma perché convinti che in Libia potevano trovare la soluzione ai loro problemi. […] Per affrontare la prima tappa, verso la Libia, bisogna passare dal deserto del Sahara, e su questo non mi soffermo, lo farei se potessimo rimanere qui ad ascoltare i ragazzi sulla loro prima tappa.

E questo potrebbe essere utile nell’aiutare alcune persone a elaborare la memoria e il lutto, ci sono più morti nel deserto del Sahara che nel mare Mediterraneo. E questa elaborazione potrebbe aiutare molti richiedenti a stare in piedi, a lavorare ad andare avanti per loro stessi e per tutti coloro che non ce l’hanno fatta.

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